sabato 31 luglio 2010

At the Mountains of Madness: le stelle, finalmente, sono “giuste”

Astounding febbraio 1936, copertina di Howard V. BrownDalla fonte autorevole di The Hollywood Reporter la notizia ha fatto rapidamente il giro dei media, sino a rimbalzare in tempo reale sui siti web in italiano diffondendosi, complice un nome di gran richiamo come quello del cineasta di Titanic, di Aliens e di Avatar, attraverso i canali informativi di cinema, questa volta ben oltre il panorama abituale degli appassionati lovecraftiani e di weird fiction.

Dunque, le stelle sono ormai quasi “giuste”: sarà James Cameron a produrre addirittura in 3-D At the Mountains of Madness, il più ambizioso e travagliato progetto di Guillermo Del Toro che da anni sognava di portare sul grande schermo una versione fedele, sia in spirito che per ampiezza e profondità di visione, di un’opera fra le più mature di H.P. Lovecraft. Una complessa storia di esplorazione antartica, sinora sfuggita all’ondata di riduzioni cinematografiche molto – quando non “troppo” – liberamente tratte dalla narrativa del Gentiluomo di Providence.

Decisivo l’appoggio di Cameron, nel convincere la Universal a stanziare i finanziamenti necessari per un costoso e impegnativo film “di serie A”. Una possibile pietra miliare, nelle intenzioni di Del Toro, nel presentare l’orrore cosmico finalmente in tono “adulto”, con tutte le spinose implicazioni della visione sostanzialmente atea e anti-antropocentrica di Lovecraft: un minare alla base le più consolidate sicurezze umane circa la propria natura e posizione nel cosmo, nella realtà di un universo indifferente quando non incidentalmente ostile. Quanto basta, negli Stati Uniti, per meritarsi il commercialmente rischiosissimo bollino “PG-18”, ovvero il divieto ai minori non accompagnati.

At the Mountains of Madness, illustrazione di Howard V. Brown su Astounding, marzo 1936La fase di pre-produzione dovrebbe avviarsi nel giro di qualche settimana, mentre l’inizio delle riprese è previsto per l’estate del 2011, sulla base di uno script da lungo tempo in fase di stesura e revisione, firmato dal regista di Hellboy e de Il labirinto del fauno insieme a Matthew Robbins, già collaboratore alla sceneggiatura di Mimic nel 1997.

“Stiamo riscrivendo un poco la sceneggiatura stesa negli ultimi 12 anni,” racconta Del Toro in un’intervista a MTV News. “Matthew e io crediamo che un copione del genere sia da rivedere ulteriormente, ogni tanto. Lo avevamo fatto l’ultima volta un paio d’anni fa, quando abbiamo sentito il bisogno di riscrivere certe cose”.

Ed ecco allora una “chicca” per i più curiosi e impazienti fra i lettori: la prima stesura della sceneggiatura in questione è scaricabile come file PDF (1.37 Mb) da questo link diretto di www.raindance.co.uk oppure, in alternativa, dalla pagina web del Lovecraft Blog Group su Google Groups.

Infine, dopo la copertina a colori di Astounding (febbraio ’36) e il frontespizio interno per la seconda parte del racconto, sopra inclusi nel testo, vi lasciamo con le altre illustrazioni originali realizzate da Howard V. Brown (1878-1945) per la prima pubblicazione di “At the Mountains of Madness”, in tre puntate su Astounding Stories del febbraio, marzo e aprile 1936.

At the Mountains of Madness, illustrazione di Howard V. Brown su Astounding, 1936At the Mountains of Madness, illustrazione di Howard V. Brown su Astounding, 1936At the Mountains of Madness, illustrazione di Howard V. Brown su Astounding, 1936
Andrea Bonazzi

giovedì 29 luglio 2010

L’ascesa e il crollo dei “Miti di Cthulhu”

(…) operare nel filone di Lovecraft non è in ogni modo una ricetta per il disastro estetico. Nel giovane scrittore, una imitazione diligente può servire come valido trampolino per lo sviluppo di capacità letterarie che potranno essere poste altrove a miglior uso; per lo scrittore esperto che cerchi di sfruttare concezioni lovecraftiane in un lavoro inteso ad avere indipendente valore estetico, l’esercizio può risolversi in trattazioni potenti e ben distinte se tali concetti vengono usati entro il quadro della visione estetica propria dell’autore. Il brusco assioma di Samuel Johnson, «nessuno è mai giunto a grandezza con l’imitazione,» resta vero a più di duecento anni dalla sua pronuncia. Ma quegli scrittori che fanno qualcosa di più della mera imitazione di Lovecraft hanno una chance di produrre opere che vivranno, e che meritano di vivere”. (S.T. Joshi)

Questa, tradotta qui per l’occasione, la quarta di copertina di The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos, titolo un po’ provocatorio – e giustamente non troppo serioso – del volume che S.T. Joshi dedica alla nascita e gli sviluppi dei cosiddetti “Miti di Cthulhu”, originati da un ciclo di racconti di H.P. Lovecraft e trasformati, “con il passare di strani eoni” e con l’emulazione spesso superficiale di ancor più strani autori, in fenomeno dapprima squisitamente letterario e poi mediatico.

Il libro è ovviamente in inglese, pubblicato in America nel 2008 dalla piccola e specializzata Mythos Books e reperibile tramite librerie online. Il che rende paradossalmente ancor più necessario parlarne, qui in Italia dove la più diffusa critica su Lovecraft – limitandoci a questo tema nell’horror letterario – è pressoché in letargo da decenni, salvo per quelle poche minuscole realtà, quasi invisibili e faticosamente coltivate, da cui proviene guardacaso la rara saggistica italiana di settore a trovar credito finalmente oltreconfine. Insomma, “qui” dove l’unico modo per avere accesso a certe cose è ancora quello di imparare a leggere in un’altra lingua.

L’attenzione, in questo caso, non è tanto verso l’autore di culto per soliti maniaci fanzinàri. Che si voglia o no, “lovecraftiano” è anche da noi un aggettivo d’uso ormai corrente; Lovecraft è uno scrittore di quelli tanto pubblicamente nominati quanto poco effettivamente letti e conosciuti – come Stoker col suo Dracula, per fare un vago paragone. Cthulhu e un’intera genia mostruosa dai nomi imbottiti di “th” sono definitivamente accolti nell’immaginario collettivo, non solo e necessariamente dai giovani: una marea di persone che da decine d’anni interagiscono con essi, con le loro tematiche dal cinema e lo spettacolo alla musica; dai fumetti ai giochi di società, elettronici, di ruolo, di carte collezionabili o quant’altro. Fino alle derive magico-esoteriche di chi prende terribilmente sul serio queste cose.

Gente che si proclama ovunque fan di Lovecraft, convinta di conoscerlo magari in virtù dei libri scritti a nome suo; più spesso dopo anni di controculture varie, di dischi, comics, film e soprattutto moduli di gioco. Al che qualcuno si mette finalmente a leggerne i racconti, possibilmente con un filo di attenzione, e scopre che le pagine che si ritrova fra le mani non coincidono per filosofia e contenuti con quei “Miti di Cthulhu” dati da sempre per scontati.

Tornando all’opera di Joshi, biografo di Howard Phillips Lovecraft e curatore delle definitive edizioni dei suoi testi, The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos è essenzialmente un’indispensabile cronistoria del fenomeno esclusivamente ricondotto alla sua matrice letteraria. In nove capitoli, inizia dalle influenze e suggestioni nel primo periodo di attività del sognatore di Providence, quindi lo sviluppo della sua mitologia artificiale in una prima fase, tra il 1917 e il ’26, in cui le pseudo-divinità già fanno da sfondo per l’orrore cosmico; il sovrannaturale ancora gioca un certo ruolo e pseudobiblia quali il Necronomicon sono intesi come dei grimorî custodi di oscuri segreti stregoneschi, anziché le cosmologie o le adombrate cronache pre-umane, non sempre sistematizzate e coerenti, nelle quali tenderanno a trasformarsi in seguito.

Una seconda fase si ha con la pietra miliare di The Call of Cthulhu (1926) che definisce la de-mitizzazione definitiva di alieni umanamente percepiti come déi; lo spostamento più netto verso la fantascienza e una più vasta complessità di temi. Sempre e comunque, le storie utilizzano i “Miti di Lovecraft” – così li chiama Joshi a distinzione dei travisamenti successivi – come un palco su cui mettere in scena il vero dramma: la rivelazione di un universo impersonale e incomprensibile a sconvolgere ogni umana illusione di certezza.

H.P. Lovecraft, C.A. Smith & R.E. Howard, illustrazione di Andrea BonazziSegue il capitolo sui contemporanei, fra i colleghi, a condividere e scambiare tali o simili mitologie di sfondo: Clark Ashton Smith e Robert E. Howard per lo più di rado e a modo proprio, altri considerando e riproducendone semplicemente i più superficiali aspetti. Fino alla nascita dei “Miti di Cthulhu” per come concepiti e diffusi da August Derleth, sulla base delle proprie convinzioni personali e religiose, e infine su equivoci e su fraintendimenti.

Derleth, sottolinea Joshi, aveva tutto il diritto di scrivere a suo modo una propria narrativa lovecraftiana, inserendovi elementi nuovi come il parallelismo cristiano della caduta dei “malvagi” Grandi Antichi, esiliati e tenuti a bada da una classe di benigni Dei Primigenî; con un massiccio uso di magie e talismani protettivi che non lasciassero l’umanità inerme in totale balia di tali potenze immani; con una proliferazione delle divinità e un loro adattamento a suddividersi in canonici spiriti elementali d’aria, fuoco, terra e acqua. E, sostanzialmente, rendendo questa mitologia demoniaca non più un simbolo di forze inconoscibili ma sola e vera protagonista al centro delle storie, ogni senso di meraviglia e orrore perduto fra genealogie impronunciabili quanto puntigliose e trite meccaniche d’azione coi “buoni” che affrontano i “cattivi”.

Il fatto è che, oltre a scriverla, questa concezione narrativa il fondatore dell’Arkham House la attribuì postuma allo stesso Lovecraft, stabilendone un valore come canone. E firmando “collaborazioni” che sono invece interamente suoi lavori, basati soltanto sui meri spunti delle note nel Commonplace Book, o costruiti su brevissimi frammenti lovecraftiani.

(...) tutti i miei racconti, anche se possono sembrare non collegati fra loro, sono basati su di una leggenda fondamentale, secondo la quale questo mondo fu abitato un tempo da un’altra razza che, per aver praticato la magia nera, perse il suo dominio e venne scacciata, ma vive tuttora al di fuori, sempre pronta a prender possesso della Terra”.

Questa famosa frase attribuita a H.P. Lovecraft non appare in realtà in alcuno dei suoi scritti. L’intera citazione, unico supporto alla concezione derlethiana del “Mito”, proviene da una lettera del compositore Harold S. Farnese ad August Derleth (11 aprile 1937), nella quale il musicista ricostruiva a memoria quanto gli avrebbe scritto il gentiluomo del Rhode Island nel periodo della loro corrispondenza.

Ma quella, nel frattempo, era l’ottica in cui l’Arkham House stava presentando al mondo l’opera – nonché la complessa personalità – di Lovecraft, fino alla sua massiccia diffusione nei formati tascabili usciti su licenza. Il modello di riferimento per gli acritici appassionati come per i continuatori e gli imitatori innumerevoli, sin agli anni 70 e ancora oltre.

Il saggio prosegue quindi con il passare in rassegna critica gli esempi significativi nella sterminata letteratura dei Cthulhu Mythos, nei vari periodi sino ai nostri giorni, senza pretese di completezza e dichiaratamente tralasciando “il peggio” della formula ripetuta in copia sterile. Soffermandosi, piuttosto, sulle voci più originali che dalla vena lovecraftiana hanno saputo trarre un nuovo apporto, trovando vie del tutto personali da percorrere.

Un influsso creativo senza precedenti, ancor vitale dopo tre quarti di secolo e legato a un’intera tematica anziché, come prima accaduto, a un personaggio – si pensi per esempio a Sherlock Holmes. Esaminarne motivazioni e meccanismi richiederebbe interi altri volumi. Questo, a riassumerne obiettivamente la storia, le origini e l’evoluzione, è il punto di partenza.

The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos
S.T. Joshi
Mythos Books, 2008
copertina rigida, 308 pagine, $40.00
ISBN 0978991184


Andrea Bonazzi

(pubblicato su In Tenebris Scriptus il 23/03/09)

martedì 27 luglio 2010

Santiago Caruso

Santiago Caruso, The Dunwich Horror
Santiago Caruso, House of Windows
Santiago Caruso, The Bloody Countess
Santiago Caruso, Esoteric Order of Dagon

Fra i più interessanti illustratori della sua generazione, Santiago Caruso nasce a Buenos Aires nel 1982 iniziando nel 2001 la propria attività professionale, dapprima nell’illustrazione didattica e per ragazzi, quindi in quella per i periodici e l’editoria di lingua spagnola, affrontando tecniche e temi tradizionali e classici fino a illustrare il “Romeo and Juliet” nei Three Great Plays of Shakespeare e il Don Quixote, entrambi nella diffusissima collana Penguin Readers.

Ma l’originalità e la forza espressiva del suo tratto si rivelano nei soggetti del simbolismo, del tono surreale e del fantastico, elementi assai più congeniali e dichiaratamente prossimi all’immaginario personale del giovane artista argentino.

Arrivano così le sontuose edizioni illustrate del racconto di H.P. Lovecraft The Dunwich Horror (El Horror de Dunwich, 2008) e de La Condesa Sangrienta (2009) di Alejandra Pizarnik basato sulla figura di Erzsébet Báthory, pubblicate in Spagna da Libros del Zorro Rojo. E ancora, le copertine apertamente weird per Miskatonic River Press e Night Shade Books, come la spendida cover del romanzo House of Windows (2009) di John Langan fra le immagini qui sopra riprodotte.

Gallerie: sito ufficiale www.santiagocaruso.com.ar; blog personale santiagocaruso.blogspot.com; pagine dedicate su beinArt e in DeviantArt.

Andrea Bonazzi

domenica 25 luglio 2010

Solomon Kane: c’era davvero bisogno di adattamenti? Una recensione semiseria

Solomon Kane locandina italianaLa visione della recente pellicola ispirata (molto liberamente ispirata) all’eroe howardiano ha lasciato con sé, inevitabilmente, un interrogativo di questo genere.

Interpretato da James Purefoy con Max Von Sydow, Rachel Hurd-Wood e Pete Postlethwaite, il film scritto e diretto da Michael J. Bassett prende ispirazione dal personaggio omonimo creato da Robert Ervin Howard in un ciclo di racconti apparsi su Weird Tales a partire dal 1928.

Per iniziare, eccone la sinossi presentata sul sito ufficiale www.solomonkane.it:

“Il Capitano Solomon Kane è una brutale ed efficiente macchina di morte del Millecinquecento. Armato di pistole, armi da taglio e spada, lui e i suoi uomini sono assassini assetati di sangue mentre combattono per l’Inghilterra, una guerra dopo l’altra, in tutti i continenti. All’inizio della storia, Kane e la sua banda di saccheggiatori si stanno aprendo una sanguinosa strada attraverso le orde di difensori di una esotica città del nord Africa. Ma quando Solomon decide di attaccare un misterioso castello nelle vicinanze e di saccheggiarne le ricchezze di cui aveva tanto sentito parlare, la sua missione prende una piega nefasta. Uno a uno, gli uomini di Kane restano uccisi da creature demoniache fino a che non rimane da solo a confrontarsi con il Mietitore del Diavolo, mandato dagli abissi dell’Inferno per prendere possesso della sua anima corrotta e senza speranza. Pur riuscendo finalmente a sfuggirgli, Kane è costretto a redimersi rinunciando alla violenza e dedicandosi interamente ad una vita di pace e purezza. La sua nuova spiritualità viene però subito messa alla prova quando inizia a viaggiare attraverso l’Inghilterra devastata da diabolici cavalieri, i Raider, capeggiati da un terrificante Feudatario mascherato, Overlord. Dopo che Kane fallisce il tentativo di fermare il brutale massacro dei Crowthorn, una famiglia puritana che lo ha preso a benvolere, giura di ritrovare e liberare la loro figlia, Meredith, rapita e presa come schiava, anche se questo significa mettere a repentaglio la propria anima riabbracciando il suo passato di assassino, se pure per una giusta causa. La sua determinata caccia lo porta a scontrarsi con i segreti mortali della propria famiglia, mentre tenta di salvare Meredith e tutta l’Inghilterra dalle forze del male”.

Ero partito diretto verso il cinema invero con un certo scetticismo, pronto alla visione di un film anche pessimo ma che, quantomeno, riuscisse a suscitare in me almeno qualche emozione forte che mi ricordasse la letteratura. Certo è questo il fascino degli adattamenti e delle trasposizioni: “tradurre” in altri linguaggi opere che fino ad allora si erano immaginate soltanto nella nostra visualizzazione mentale della letteratura. In tal senso speravo che, da fervente seguace di Solomon, almeno qualcosina di potente e coinvolgente sarei riuscito a ritrovare.

La tradizione delle trasposizioni howardiane al cinema confortava e non confortava allo stesso tempo. Tralasciando gli infiniti riferimenti secondari presenti in altre opere, se ci rifacciamo ai fondamentali, il Conan di John Milius risultava solo a metà riuscito, pervaso da eccellenti atmosfere, ma anche viziato da uno Schwarzenegger mai altrettanto “plasticoso” e inadatto al ruolo nel corso della sua carriera; allo stesso modo il Conan il distruttore di Richard Fleischer era godibile e divertente, ma molto spesso trascendeva in certi aspetti ridicoli sui quali è meglio sorvolare; il Kull con Kevin Sorbo-Hercules esisteva nella memoria, ma essenzialmente come termine di paragone negativo. Il mantra di preparazione a Solomon Kane, infatti, per un pessimista esigente come me non ha potuto essere altro che “non potrà mai essere peggio di Kull,” e con questo moto dell’animo mi ero preparato al film di Basset con una certa benevolenza.

Ebbene, non è stato peggio di Kull sicuramente, e tuttavia la sensazione dominante è stata ed è che ben poco di howardiano sia rimasto nell’adattamento di Solomon Kane, anzi, per dirla tutta, quasi nulla. C’è un attore che avrebbe il fisico e lo sguardo perfetto, vestito a regola d’arte con la tenuta d’ordinanza dello spadaccino puritano, ci sono locations e atmosfere visive talora quasi perfette, ma la storia e lo spirito del personaggio howardiano se ne sono andati allegramente a farsi benedire....

Tralasciamo per ora gli aspetti un po’ più balzani della storia (ne parlerò fra breve), ma è nella configurazione del personaggio che il film va a fallire dapprima nella maniera più infima. Se paragoniamo il protagonista di Bassett al Solomon howardiano, il primo appare sostanzialmente come un normale avventuriero: monotematico, monocorde, talvolta quasi un allegrone (sorride persino), dotato di un background drammatico inesistente nell’originale (e francamente un po’ ridicolo e prevedibile), anche talora piuttosto stupido. Senza dimenticare che Solomon è nell’originale un puritano fanatico, che alla fine apre maggiormente il proprio orizzonte mentale a una più ampia concezione di ciò che è bene. Tutto un aspetto che nel film resta totalmente assente, in favore di un banalissimo atteggiamento “Viva Dio, abbasso Satana”. Per carità, nulla di scandaloso...

In tal senso, però, si sarebbe potuta intitolare direttamente l’opera a “un pirla di avventuriero qualsiasi vestito di nero e con le spade” e si sarebbero deluse molte meno aspettative, o quantomeno si sarebbe stati più onesti su ciò che ci si dovesse aspettare.

Quanto alla storia, non starò ora a riassumere puntigliosamente ogni cosa, ma certo è d’obbligo denotarne le scelte principali più discutibili: cogliere sì qualche minuscolo spunto dai vari racconti howardiani come la ricerca della fanciulla in pericolo, il maniero maledetto, il ritorno a casa di Solomon Kane, una personalissima rielaborazione dei neri cavalieri della morte, ma aggiungendovi lo stupidissimo tema della “redenzione dell’anima” sul quale gli autori insistono fino allo sfinimento (ma Kane in Howard non si deve redimere di un accidenti…È – a suo modo – un redentore, considerandosi la mano della giustizia divina); e poi frullare tutto questo con delle origini traumatiche delle quali non si sente alcun bisogno, con uno scontro finale con uno stregone abbastanza improbabile, dimenticarsi del periodo storico che in Howard è sempre realisticamente dominante nonostante il tono weird in favore di un’Inghilterra fantastica inesistente, introdurre – tramite una pseudo-citazione de “Gli specchi di Thuzun Tune” – il fratello povero del Balrog... Mi pare che ce ne sia già d’avanzo.

Solomon Kane e demone, fotoInsomma, si capirà bene che se vogliamo parlare di una storia ispirata a Solomon qui non ci siamo proprio, e si parla di una trama che non sta né in cielo né in terra, soprattutto se si pensa che esistevano almeno tre o quattro storie lunghe già pronte di Howard che potevano essere trasposte perfettamente al cinema, oppure “fuse” in una vicenda unica con una trama già adeguata a una versione cinematografica (vedi almeno “La luna dei teschi” e “Le spade della fratellanza”). Parlando di Solomon Kane, il film risulta quindi molto triste e si configura come un progetto senza capo né coda, segnato da scelte fallimentari di partenza. Quasi tutte almeno: salviamo gli attori, i quali – Purefoy in primis – sono azzeccati nel complesso.

Tutto questo se pensiamo inoltre che moltissimi fan, sull’onda dell’entusiasmo, saranno andati a vederlo sperando quantomeno in un barlume di luce howardiana: come me suppongo che molti sarebbero stati benissimo disposti e pronti a perdonare anche molti intuibili svarioni.

Detto ciò, e se cancelliamo Solomon dai nostri desideri, il film risulta anche tutto sommato vedibile e piacevole per almeno tre quarti della sua durata. Le avventure del “tizio vestito di nero un po’ bigotto e romantico con la spada e le pistole” scorrono via in modo abbastanza movimentato e scorrevole, con scene d’azione anche discrete. Ci sono alcune (molte) “telefonate” alle quali lo spettatore spera che nessuno risponderà (ma si isponderà... Eccome se si risponderà) e diverse forzature e meccanicità. Ma nel complesso il tutto resta abbastanza divertente.

A partire dalle scene ambientate nel castello, però, quando per la seconda volta appare la “Strega” di Sam Raimi presa di peso da Evil Dead III con sua relativa immediata dipartita, proprio nelle scene che dovrebbero essere cruciali il film si auto-demolisce spietatamente e masochisticamente. Se qualcuno aveva messo in piedi una mezza struttura con zeppe e sostegni di rinforzo, adesso lo stesso genio inizia a togliere i puntelli dal di sotto a uno a uno; qualche stolto inizia a rispondere al telefono di cui sopra, qualcun altro decide di fare un crossover imprevisto con Il Signore degli Anelli e un tocco di suprema depressione raggiunge il lettore/spettatore sano di mente quando nel cupo mondo di Solomon Kane viene fuori un tono da happy end finale – dopo qualche decina di migliaia di morti.

Ah, però, i titoli di coda sono meravigliosi (paradossalmente forse sono la parte più autenticamente emozionante dell’intero film). E anche il font del titolo è molto bello... Sì sì...

Tornando seri, posso recuperare adesso la domanda del titolo: ce n’era davvero bisogno? In termini howardiani, no davvero. Non c’era davvero bisogno di questa trasposizione. Ciò non toglie che da lettori appassionati potremmo sperare, per un giorno lontano, in qualcosa di meglio e di serio... Se individuiamo il film nell’ottica dello pseudo-fantasy di serie B, divertente e adatto per passare una serata spensierata, allora esso ha anche una sua ragion d’essere ed è pure simpatico. Ma non è affatto Solomon Kane.

In termini di trasposizioni riuscite, vorrei ricordare, per concludere, l’eccellente sua prima miniserie a fumetti prodotta dalla Marvel: se trasposizione avrà un giorno da essere, dovrebbe seguire quella filosofia. Il mondo del fumetto generalmente è stato in questo senso infinitamente più incline a rendere giustizia ai personaggi di R.E.H., a partire da Conan per proseguire con tutti gli altri. La ricetta corretta è semplice, quasi banale, e non richiederebbe in realtà null’altro che il buon senso: fedeltà al personaggio, allo spirito e al messaggio che l’autore voleva comunicare, alla filosofia compositiva, alle storie narrate – adattando e al massimo ampliando, quindi, le trame di Howard; e quand’anche si inventassero delle altre storie nuove, così come fecero Roy Thomas e altri con Conan, occorrerebbe la volontà di rispettare la personalità, l’individualità artistica e, in sostanza, l’anima dell’opera modello. Dopodiché si potrebbe anche sbagliare e produrre delle opere (magari delle sterili imitazioni) scadenti, ma lo si farebbe in onestà e non ammantando un poveretto della cappa di un sovrano.

E l’unico manto che Solomon Kane – un puritano rigido e tutto di un pezzo – può accettare, lo si sa, è quello della Fede e della Giustizia, non altri appioppati da altrui.



Umberto Sisia

venerdì 23 luglio 2010

Cthulhu in 70 millimetri

Cthulhu Domain Statue, fotoNo, non parliamo di pellicole cinematografiche… 70 mm. è il formato in altezza della nuova Cthulhu Domain Statue, miniatura in due pezzi in arrivo da Fantasy Flight Games per il prossimo autunno.

Realizzata in resina color verde con rifiniture in nero, la figura di Cthulhu – assiso sulla propria base raffigurante la sommersa R’lyeh – potrà essere utilizzata come marcatore e ferma-mazzo per il gioco di carte collezionabili di Call of Cthulhu, completando così un corredo di accessori inaugurato, qualche mese fa, con i segnalini cthuloidi in diverso formato compresi nella Bag of Cthulhu.

Card games a parte, nulla vieta di approfittare del formato tascabile della statuetta per averla sempre con voi al momento del bisogno: l’ideale, per esempio, per animare uno scatenato rave party notturno in comitiva fra le tranquille paludi della Luisiana in cui, letteralmente, i vostri amici cultisti adoreranno quest'idolo!

Prevista in vendita al prezzo di $19.95, della nuova Cthulhu Domain Statue promette di tornare a occuparsi il sito ufficiale della Fantasy Flight Games.

Andrea Bonazzi

giovedì 22 luglio 2010

I vampiri dello spazio: un romanzo meta-narrativo

I vampiri dello spazio, 1978, copertina I vampiri dello spazio (The Space Vampires, 1976) di Colin Wilson... Uno strano romanzo che si presta ad essere sottoposto a numerose tipologie di lettura e interpretazione è recentemente tornato fra le mie mani, complice una bancarella di libri usati. Un vecchio Urania mi ha consentito di ritrovare tematiche, pregi e difetti di un libro che ha avuto senz’altro un notevole peso nella storia della letteratura fantastica.

Fra i vari livelli di lettura posseduti dal testo, il primo che balza agli occhi è senz’altro la sovrastruttura fantascientifica che lo domina. Potente e pervasiva a livello scenografico, in realtà a un’analisi più approfondita si rivela piuttosto un mero fondale sul quale ambientare poi un diverso tipo di racconto di tutt’altro genere. Il pretesto della narrazione è infatti il ritrovamento da parte di un’astronave terrestre di un enorme relitto vagante nello spazio, all’interno del quale sono presenti una sorta di cripte di vetro/metallo che ospitano figure umane apparentemente in animazione sospesa. Gli esploratori giungono presto ad aprire alcune di tali cripte per studiare i corpi e a tale scopo questi vengono portati sulla Terra ove, come è facile immaginare, ben presto si ridesteranno divenendo una pericolosa minaccia per l’umanità, fuggendo dall’istituto dove erano custoditi e divenendo oggetto di ricerca da parte degli investigatori. Essi sono infatti vampiri di energia, che necessitano di assorbire le forze vitali degli altri esseri per sopravvivere e che sono in grado di trasferire la propria essenza vitale da un corpo all’altro.

Se, quindi, l’ambientazione di partenza è prettamente fantascientifica (astronavi e astronauti, alieni, caccia agli stessi), col progredire del racconto gli elementi tecnologici e futuribili iniziano a affievolirsi sempre di più col trascorrere degli interessi del racconto verso altri registri. A tale livello iniziale, tuttavia, si innesta potentemente un immaginario estremamente cinematografico da parte dell’autore. È noto come egli stesso abbia sceneggiato, in seguito, il proprio libro per la trasposizione operata da Tobe Hooper dal titolo Space Vampires (Lifeforce, 1985) e perciò esista già storicamente un filo doppio che collega le opere uscite tramite i due media, ma la “cinematicità” del testo non si limita a questo elemento poiché balza agli occhi sia mediante la potenza di impianto delle scene, sia nel taglio e nell’impostazione delle sequenze narrative che nello stesso dinamismo dell’azione, quando ovviamente essa sia presente.

Space Vampires (Lifeforce, 1985), locandinaMa ancora questo non basta. La concezione dello spazio esterno come fonte di fascinazione e insieme di oscura minaccia è infatti patrimonio della fantascienza tutta (non solo, però: ricordiamoci del fondamentale contributo al tema di H.P. Lovecraft), ma appare particolarmente evidente nel presente romanzo. Cinematograficamente, spicca in particolare alla memoria il contributo portato da numerose pellicole, a partire da quelle degli anni 50 incentrate sulla minaccia degli alieni, fino a Il pianeta proibito senza dimenticare il ciclo di Alien e numerosissimi altri film, i quali allo stesso modo pongono al centro della narrazione il risvegliarsi o il penetrare in un mondo sostanzialmente ordinato di forze esterne irresistibili (interne, si scoprirà, ne Il pianeta proibito, ma è un altro legame che analizzeremo meglio in seguito), portatrici di una minaccia cosmica in grado di alterare l’equilibrio e portare virtualmente alla distruzione un’umanità ignara e antropocentricamente ancorata al proprio limitato orizzonte mentale.

Altrettanto potente e pervasivo è stato nel corso del tempo, sia per il cinema che per la letteratura, il tema della colossale astronave planetaria (abbandonata o meno che essa sia), ricorrente poi – tanto per citare a caso le prime opere che balzano alla mente – nel ciclo di Hyperion di Dan Simmons o – in diversi modi – in film come Star Wars e Punto di non ritorno, per esempio. Nel caso in questione ha in ispecie rilevanza il fatto che il vascello risulti apparentemente desolato e deserto, funereo e sepolcrale, frutto di una civiltà tecnologicamente ed esteticamente avanzatissima, poiché le scene inerenti l’esplorazione della “Stranger” (questo il nome con cui la nave viene battezzata) sono fra le più affascinanti, per quanto non fra le più importanti contenutisticamente, della narrazione.

Se però nella nostra analisi abbandoniamo il guscio e ci facciamo via via strada verso il nocciolo dell’opera, potremo vedere come fra i vari significati del romanzo assuma valore primario tutto un complesso di livelli interpretativi legati alla caratterizzazione psicologica, all’indagine a mo’ di detective story, al tema erotico, al vampirismo inteso come caratteristica insita nell’esistenza biologica di ogni essere. Si tratta di livelli estremamente ricchi di interesse e continuamente interconnessi. La ricerca degli alieni fuggitivi si configura infatti come sia un’indagine volta a catturare i “criminali” del caso (e ricorre spesso nelle parole dei personaggi, infatti, il parallelismo vampiro/criminale) e in quest’ottica occorre bene ricordare come Colin Wilson fosse appunto soprattutto criminologo e autore di gialli, oltre che esperto di soprannaturale.

Ma tale indagine si somma anche a una ricerca interiore all’interno della psiche, per la quale si conclude alla fine come il vampirismo sia una sorta di forma di empatia psicologica esistente in natura, tramite la quale conscio e inconscio instaurano delle relazioni di particolare natura con le altre persone, amici, nemici, prede e in particolare con l’altro sesso nelle dinamiche di tipo sentimentale/sessuale (e non a caso nell’economia del romanzo largo spazio è dedicato – e non per mero voyeurismo letterario – alla rappresentazione dell’espressione fisica di tali pulsioni). La ricerca scientifica dei personaggi si configura dunque in definitiva come una ricerca relativa all’interiorità umana e solo di conseguenza a quella degli alieni i quali – in tal senso – si rivelano alla descrizione notevolmente antropomorfizzati per quanto riguarda sia le motivazioni, che le reazioni, che le considerazioni psicologiche.

Ecco quindi che da un romanzo in partenza di “semplice” sci-fi siamo già passati verso una narrazione più legata all’uomo, e per traslato alle sue estremizzazioni vampiriche venute dallo spazio, sorta di superuomini deviati e devianti con tendenze criminali, la sconfitta dei quali intende ripristinare lo status quo ante. Proprio in questo senso si concretizza ancora di più il legame con Il pianeta proibito di cui si parlava prima, poiché allo stesso modo nel quale le minacce esterne si rivelavano in realtà nel film minacce interne, i famosi “mostri dell’Id”, legati alle pulsioni emotive più oscuramente inconfessabili, portate alla luce tramite la tecnologia e in grado di assumere forma concreta, così pure i vampiri dello spazio si individuano dapprima attraverso i macchinari di analisi supposti nel romanzo e costituiscono allo stesso modo specchi distorti del medesimo vampirismo dei protagonisti (non è un caso che il principale personaggio, Carlsen, sia proprio nella parte centrale del romanzo perennemente in bilico fra la propria natura umana e quella supposta vampirica trasmessagli forse attraverso l’“infezione” degli alieni, in un dubbio esistenziale di somma rilevanza all’interno dell’economia della storia).

The Space Vampires, 1976, copertina americanaFra tutti i livelli di lettura presenti nel romanzo, però, uno è sicuramente più d’impatto e forse costituisce quello che interessa di più in questa sede, e cioè quello meta-narrativo, e proprio con esso cercherò di concludere la mia breve analisi degli aspetti salienti dell’opera di Colin Wilson. In sintesi, allora, sarà proprio questo livello di lettura che potrà permettere di dare definizione chiarificatrice del genere al quale esso appartiene, poiché ritengo che proprio la meta-narrazione costituisca la cifra di interpretazione più significativa dei suoi contenuti o, in altre parole, il tessuto connettivo che tiene insieme le varie anime del testo che – va detto – apparirebbero altrimenti nel complesso abbastanza disomogenee fra di loro, per quanto strettamente legate dalla trama. Non si tratta più – o non soltanto, almeno – di romanzo fantascientifico, giallo, psicologico, erotico, allora, ma appunto di romanzo meta-narrativo, in quanto attraverso gli strumenti e i riferimenti della letteratura esso riesce a rendere densi, veicolare e portare a conclusione i propri contenuti più pregnanti.

Numerosissimi sono gli elementi che potremmo definire meta-narrativi all’interno della storia. Ciò che spicca di più allo sguardo del lettore è in primo luogo il continuo riferimento alla tradizione vampirica come è stata consolidata dalla vulgata letteraria e cinematografica. I personaggi (e Wilson strizza l’occhio tramite loro) si trovano ad adottare e a conformarsi in larga parte a dei comportamenti e delle conoscenze che caratterizzano la figura del vampiro, ma solo per interpretarne la valenza in una nuova ottica. In questo modo i vampiri della tradizione folklorica e letteraria si scoprono essere quegli stessi alieni che nella notte dei tempi calarono sulla terra per iniziare a influenzarne lo sviluppo, e che sono perciò stati ricordati poi attraverso le generazioni anche a livello mitico. Molto di ciò che si narra nelle leggende si ritrova perciò verificato anche nel romanzo: dall’avversione all’aglio alla forza superiore, ai poteri ipnotici, alla potenza e irresistibilità sessuale, alla possibilità di cambiare forma (entro certi limiti). Il dialogo con Bram Stoker è costante e importantissimo, tant’è vero che – per citare il caso più incisivo – come in Dracula a un certo punto la possibilità di individuare le mosse del vampiro perviene attraverso l’ipnosi di una sua precedente vittima, così pure nel romanzo wilsoniano il legame empatico/psicologico fra Carlsen e l’alieno consente per mezzo della trance ipnotica di definirne una precisa localizzazione.

Ma non è l’unico aspetto degno di nota a costituire una correlazione, poiché come nel Dracula esisteva il personaggio di Van Helsing, così qui abbiamo la figura del Conte Von Geijerstam il quale ne rappresenta in pratica una diretta prosecuzione. Come il filosofo olandese, esso è uno studioso di scienze umane (psicologo) il quale viene ad acquisire una sapienza particolare sui vampiri che è poi in grado di distribuire ai personaggi affinché essi la sfruttino per avversarli.

Ma non ci si può limitare solo a queste corrispondenze meta-narrative: se il dialogo con Stoker è importante, altrettanto risulta esserlo quello con Arthur Conan Doyle, poiché la rappresentazione di Londra e degli ambienti polizieschi londinesi non si discosta poi granché da quanto è possibile leggere nelle pagine di Sherlock Holmes. Non è un caso, peraltro, che proprio la coppia dei protagonisti Fallada - Carlsen richiami volutamente e alluda direttamente a quella Holmes - Watson, con la decisiva differenza che se in principio è Fallada colui che sembra “saperne di più,” progressivamente il ruolo dell’investigatore sarà assunto decisamente da Carlsen (e giustappunto Fallada gli sottolineerà manifestamente, infatti, di assomigliare sempre di più a Sherlock Holmes nel proprio ragionamento deduttivo!).

E, tuttavia, l’ordine di riferimenti più incisivo e decisivo che si può individuare non concerne soprattutto queste opere, bensì consiste in tutta una serie di manifesti legami direttissimi con la letteratura weird e soprannaturale, nello specifico ricollegandosi prepotentemente alla storia narrata nel celeberrimo racconto-capolavoro di Montague Rhodes James dal titolo “Il Conte Magnus”. I protagonisti, infatti, non solo si dirigono in Svezia – luogo deputato del racconto di riferimento – per incontrare il Conte Von Geijerstam, ma scoprono nientemeno che esso ha scelto di ritirarsi a vivere nella medesima magione del Conte Magnus (la quale può riflettere a sua volta, secondo lo status costitutivo del genere fantastico, innumerevoli altre case solitarie e in qualche modo sinistre della letteratura).

The Space Vampires, copertina edizione tascabile 1977Di più, la loro indagine svedese e il loro dialogo che svelerà tutti i retroscena del vampirismo sarà legato a filo triplo con la vicenda letteraria narrata da James, tant’è vero che verrà addirittura riportato, discusso e interpretato nel testo da parte dei personaggi il passo jamesiano finzionalmente attribuito al diario di Magnus e relativo al “Pellegrinaggio Nero”, che lo avrebbe messo in contatto con le potenze delle tenebre. Per poter andare avanti nella loro investigazione e scoprire la vera natura del vampirismo, allora, i detectives non solo dovranno leggere i documenti appartenuti all’alchimista e ora in mano a Von Geijerstam, ma anche visitarne il laboratorio, nonché la stessa cripta, venendo a scoprire infine come il vampirismo del Conte non fosse altro che la risultante dell’invasamento da parte degli alieni che - come si diceva prima - già in passato bazzicavano frequentemente il nostro pianeta come “riserva di caccia”.

Ecco quindi che intrecciato ai differenti temi del racconto e alla complessiva intelaiatura meta-narrativa scopriamo ne I vampiri dello spazio anche una profondissima riscrittura, o meglio integrazione, de “Il Conte Magnus” di James (fra le varie cose narrate da Von Geijerstam, veniamo a sapere anche della sua sorte successiva al risveglio del quale avevamo appreso l’andamento nella narrazione ottocentesca). Il testo viene quindi completato e riorientato all’interno di una nuova e moderna lettura fantascientifico-psicologico-horrorifica, introducendo anche elementi a ulteriore tradizione weird che dal racconto originale jamesiano non sarebbero stati davvero desumibili.

Se incerta a suo tempo era, infatti, la forma del terribile famiglio che si era procurato nel corso del “Pellegrinaggio Nero” e che lo seguiva ovunque (quello stesso che compariva negli arazzi e nelle sculture del testo di James, terrorizzando con il proprio aspetto indefinibile), adesso se ne fornisce una chiave interpretativa attraverso un’ipotesi anatomica riconoscibile che il lettore scaltro non può non cogliere, poiché sul sepolcro di Magnus – con un’innovazione decisa rispetto alla diversa descrizione del sarcofago da parte di James – viene fatta campeggiare in bella vista e con evidenza una figura dal misterioso significato, quella di un polpo nero con volto umano. Allo stesso modo, peraltro, di cefalopode si scopre essere il corpo originale dei vampiri dello spazio, come infatti lasciavano ipotizzare anche alcune forme organiche analoghe custodite nel vetro all’interno dell’astronave “Stranger”. E non è il caso di dire a quale scrittore in particolare si debba il proliferare di forme tentacolari e molluscoidi all’interno della tradizione letteraria fantascientifica e dell’orrore, e ci si rifaccia quindi attraverso questo riferimento letterario...

Fra giochi di specchi che si riflettono reciprocamente, incastri e stratificazioni successive, ecco dunque che i diversi livelli del romanzo lungi dal semplificarsi risultano sempre più intrecciati in un legame estremamente complesso. Si potrebbe proseguire, ma ci si fermerà qui poiché mi pare di aver abbastanza dimostrato la tesi interpretativa più interessante del presente articolo, e cioè che se un’unità si può trovare nel romanzo wilsoniano essa non può essere fornita tanto dai contenuti, quanto bensì dall’interpretazione stessa, vale a dire proprio dalla meta-narrazione, che indicando e contrassegnando la via che conduce dalla tradizione letteraria all’originalità di un’opera moderna consente di costruire su di essa numerosi edifici distinti, appartenenti in ogni caso, tuttavia, certamente al medesimo territorio.

Umberto Sisia

mercoledì 21 luglio 2010

Machen, il Bene e il Male. Solitarie passioni di un’anima persa

Arthur Machen, illustrazione di John CoulthartIn quel piccolo, raffinato capolavoro che è il racconto breve “Il popolo bianco” (The White People, 1899), Arthur Machen – definito da Lovecraft il “Tessitore di Terrori” – cesella con mano esperta uno dei temi più dibattuti dagli albori dell’umanità: la contrapposizione tra bene e male, con la minuscola, e tra Bene e Male, con la maiuscola… Ma è il concetto di “peccato/Peccato” che in realtà vuole andare a chiarire…

Intanto, secondo me, rigira il coltello in una vecchia piaga nel costato dell’uomo di tutti i tempi, ovvero l’incoscienza e la noncuranza con cui viviamo sottolineando che (…) vaghiamo per il mondo senza comprendere il significato interiore delle cose e, conseguentemente, il bene e il male che facciamo, diventano cose egualmente secondarie, irrilevanti”. Ulteriore conseguenza è che non abbiamo piena comprensione delle nostre azioni, proprio perché il concetto di bene/Bene e male/Male che possediamo è un concetto errato.

“Ma io credo che questo concetto errato, che tutto è tranne che universale, derivi in larga misura dal fatto che esaminiamo il problema dal punto di vista sociale. Riteniamo che un uomo capace di fare del male a noi e ai suoi vicini, sia malvagio. E lo è, da un punto di vista sociale. Quello di cui non ci si rende conto è che il Male, nella sua essenza, è una cosa isolata, una tendenza dell’anima individuale, una passione solitaria”.

E aggiunge: (…) tra un’azione antisociale e il Male… be’, il legame è tra i più deboli,” spiegando che ciò che noi non comprendiamo appieno è la “vera natura del Male” poiché “gli attribuiamo al tempo stesso troppa e poca importanza. Vediamo le numerose infrazione al nostro «codice sociale» – quelle regole assolutamente necessarie e ragionevoli che servono a tenere insieme il consorzio umano – e ci spaventiamo al prevalere del «Peccato» e del «Male». Ma tutto questo è assurdo. Prendiamo il furto, ad esempio. Robin Hood, o i briganti scozzesi del XVII secolo, o quelli che oggi impestano le torbiere, oppure i capitani d’industria dei nostri giorni: (…) suscitano forse orrore? Mentre, d’altro canto, talvolta sottovalutiamo il Male. Attribuiamo tanta importanza al «peccato» commesso da chi tocca le nostre tasche (e le nostre mogli), che ci siamo quasi scordati la perversità del vero Peccato.” E ancora, poi: “siamo propensi per natura a credere che chi ci arreca un gran danno debba essere un gran peccatore”.

In una società sempre più laica, e sempre da un punto di vista sociale, spesso si confonde il peccato col crimine… D’altra parte, aggiunge lo scrittore gallese, “è estremamente sgradevole farsi derubare, così diciamo che il ladro è un grosso peccatore. In verità (…) Non può essere un santo, ovviamente; però può essere – e spesso lo è – una creatura infinitamente migliore di migliaia di uomini che non hanno mai infranto un solo comandamento”.

Dell’assassino, Machen fa dire al protagonista del suo racconto qualcosa che di primo acchito può sembrare paradossale: “è soltanto una bestia selvaggia della quale dobbiamo liberarci se vogliamo salvare le nostre gole dal suo coltello. Lo catalogherei piuttosto con le tigri, anziché coi peccatori”.

Machen guarda all’uomo moderno come animale socratico, per questo crede che (…) il Bene e il Male sono innaturali per l’uomo com’è adesso – l’uomo inteso nel suo essere sociale e civile –, il Male gli è più innaturale in un senso più profondo del Bene” perché, secondo lui, (…) il vero Male non ha niente a che vedere con la vita o con le leggi sociali e, se ce l’ha, è solo in via fortuita e accidentale. È una passione solitaria dell’anima… Oppure una passione dell’anima solitaria,” e (…) che il Male, nel senso vero e profondo, è raro, e credo che lo diventi sempre di più”.

Machenalia vol.1, 1991A questo punto vien da chiedersi allora chi è il “vero malvagio”, chi è il fortunato detentore di una tale rarità? Prima di darne una definizione, Machen ne elenca i facili appellativi che gli sono stati dati nel corso dei tempi, e solo dopo assegna la palma di malvagio: (…) l’uomo malvagio, il cattivo per antonomasia, lo «stregone». Colui che veramente merita tale appellativo è chi sfrutta i difetti presenti nella vita della materia, le sue cadute inevitabili, come strumenti per realizzare il Male assoluto”. E visto in quest’ottica non si può che convenire con lo scrittore sul fatto che, effettivamente, uomini veramente malvagi siano rari… O almeno, la speranza che lo siano non è poi tanto vana…

Eppure, considerando che per Volere e Realizzare il Male Assoluto servirebbero o immenso genio o idiozia assoluta, e al giorno d’oggi siamo completamente privi del primo ma abbondantemente circondati dalla seconda, io rabbrividisco!… E credo che anche Machen se ne sia accorto, tant’è che a un certo punto afferma quasi ironico che “Il Male, ovviamente, è completamente positivo… Solo che si trova dalla parte sbagliata…” Quasi quasi rovesciando tutto quello che ha sottinteso fino a poco fa sul punto di vista.

Il Peccato, a questo punto, non avrebbe niente a che spartire con il Male. Diverrebbe (…) semplicemente il tentativo di penetrare in una sfera più alta e diversa, usando mezzi proibiti. La massa degli uomini è ampiamente soddisfatta della vita così com’è. Per questo ci sono pochi santi, e i peccatori, nel senso più vero, sono ancora di meno”. Semplicemente. Più raffinato del Male. Più sottile. Più raro.

Compiere il Male per il Male necessita totale distacco dalla Vita e da se stessi, e il completo disinteresse a perdersi. Non richiede coinvolgimento emotivo. Peccare è porsi un obiettivo e perseguirlo perseverando e cercando con ogni mezzo di ottenerlo. È trovare se stessi e riappropriarsi di quanto c’è stato tolto. È passione, nel senso di sofferenza per qualcosa di cui si è privati. E un continuo tendere a conseguirlo. E piegarlo alle leggi della Nuova Creazione in cui il Peccatore diventa Nuovo Creatore.

Il Male compirà pure un rovesciamento o una sovversione, ma il Peccato compie una “perversione” dell’ordine precostituito… “mette prima”, nel senso latino del termine “pre-verto”, la creatura rispetto al Creatore. Una luciferiana riconquista di un Eden negatoci, per colpe non nostre, da un Dio talmente ingenuo da credere di poterci creare a sua immagine e somiglianza e pretendere che non avremmo ereditato, oltre al suo volto, la Volontà di Conoscenza… O forse ha fatto bene i suoi conti e, in realtà, l’Uomo non è spinto da Volontà di Conoscenza ma solo da stupida curiosità, e nemmeno spontanea ma indotta da un Angelo Cieco. E allora il vero Peccatore è l’erede di chi?

Continua Machen (…) nel complesso, forse è più difficile essere un grande peccatore che un grande santo,” perché tutto sommato “la santità richiede uno sforzo enorme, o perlomeno molto grosso, ma la santità segue vie che un tempo erano naturali; è il tentativo di ritrovare la felicità che ci apparteneva prima della Caduta. Il Peccato, invece, vuole tentare di conquistare l’estasi e il sapere che appartengono soltanto agli angeli; e, nel compiere questo tentativo, l’uomo diventa un demonio”. Aggiunge quindi: “Il santo lotta per riavere un dono che ha perso; il peccatore cerca di ottenere qualcosa che non è mai stato suo. In sintesi, ripete la Caduta, il Peccato Originale…”

La Caduta. Gli Angeli Ribelli che tentarono di spodestare Dio furono precipitati sulla terra dove si unirono a donne mortali con cui condivisero la loro Conoscenza… Allora il peccato Originale assumerebbe un altro, più profondo significato… Allora, si comprenderebbe davvero quello che Machen definisce “la perversità del vero Peccato” quando fa suggerire da Ambrose, il protagonista, all’amico Cotgrave: “Che cosa penserebbe, seriamente, se il suo cane o il suo gatto cominciassero a parlare e si mettessero a discutere con lei con voce umana? (…) E se le rose del suo giardino si mettessero a cantare una canzone (…)? E se le pietre della strada cominciassero a gonfiarsi e a crescere davanti ai suoi occhi, e i sassolini che ha visto la sera prima diventassero boccioli di pietra la mattina dopo?”

E alla domanda su cosa sia davvero il Peccato, risponde da vero erede di un Angelo Ribelle: “Prendere d’assalto il Cielo con la violenza di un tifone”.

Tatiana Martino

(pubblicato su San Rospo il 7/03/08)

martedì 20 luglio 2010

Cosa fare quando incontri Cthulhu

What to Do When You Meet Cthulhu, 2010, copertinaSe lo saranno chiesto in molti, cosa si debba fare trovandosi davanti a un Grande Antico. La risposta sembrerebbe provenire adesso da questa What to Do When You Meet Cthulhu: A Guide to Surviving the Cthulhu Mythos, una “guida pratica” di Rachel Gray, a cura di William Jones, in uscita presso l’americana Elder Sign Press.

Il volume promette di approfondire la conoscenza con gli ormai noti “Miti di Cthulhu”, basati sulla narrativa di H.P. Lovecraft, e con le innumerevoli minacce che questi e i loro culti insinuano fra le popolazioni della terra, il tutto in un manuale completo che esplora gli esseri transdimensionali, le creature sotterranee e le entità fantastiche che si nascondono in agguato fra gli angoli del tempo.

Dagli incontri con Barnaba Marsh e Wilbur Whateley fino a certe poco raccomandabili comunità costiere del New England, il libro promette un’escursione non certo priva di umorismo, a scoprire la moltitudine d’immaginabili pericoli cui si va incontro, le opzioni di fuga, le probabilità di scampo nell’affrontare questi orrori.

I ghoul, gli shoggoth, i nightgaunt e lo stesso Cthulhu, per quanto siano entrati nella cultura popolare persino sotto forma di morbidi pupazzi di peluches non si riveleranno poi così teneri una volta incontrati faccia a faccia, o faccia a tentacoli, come dimostra questa divertita “guida di sopravvivenza” intesa a far luce sul misterioso e spesso inimmaginabile universo cthulhiano.

Informazioni sulla pagina ufficiale presso il sito della Elder Sign Press.

What to Do When You Meet Cthulhu
A Guide to Surviving the Cthulhu Mythos
Rachel Gray, a cura di William Jones
Elder Sign Press, 2010
brossura, 256 pagine, $14.95
ISBN 9781934501184

Andrea Bonazzi

lunedì 19 luglio 2010

Clark Ashton Smith, l’imperatore dei sogni

“Inchinatevi: Io sono l’Imperatore dei Sogni. Mi incorono con i milioni di astri colorati di mondi segreti e incredibili, e prendo i Loro perduranti cieli come mie vesti regali. E allorché mi innalzo sul Trono dove il vertice ascende, illumino l’orizzonte che s’espande nell’universo infinito”...
– C. A. Smith, “The Emperor of Dreams” (1912)

Clark Ashton Smith, illustrazione di Andrea BonazziUno degli scrittori più illustri e popolari di Weird Tales, la celebre “rivista dell’insolito e del bizzarro” (come citava il sottotitolo) che, paradossalmente, ebbe il suo periodo di maggior splendore negli anni 30 durante lo squallore della Grande Depressione americana, è stato Clark Ashton Smith (1893-1961) il quale, insieme a H.P. Lovecraft e a Robert E. Howard, fu definito – da Lyon Sprague de Camp – uno dei “Tre Moschettieri” della rivista.

Sul magazine guidato da Farnsworth Wright (direttore di Weird Tales dal 1924 al 1940) apparvero tutti i suoi lavori di stampo più marcatamente macabro e orrorifico, molti dei quali sono stati poi raccolti in una serie di volumi editi dalla mitica casa editrice Arkham House, pubblicati con titoli che evocano quel sense of unknown tipico delle storie di Smith: Out of Space and Time (1942), Lost Worlds (1944), Genius Loci (1948), The Abominations of Yondo (1960), Tales of Science and Sorcery (1964) e Other Dimensions (1970).

La fortuna di questi racconti, allo stesso tempo terrorizzanti e sublimi, risiede ancora oggi nella loro prosa, immaginifica e scintillante, stilisticamente perfetta, arcaica, sognante (Smith era anche un apprezzato verseggiatore, e prima di dedicarsi alla narrativa aveva già pubblicato diversi libri di poesia; i suoi versi sono stati paragonati a quelli di Baudelaire e Rimbaud, e osannati da personalità letterarie del calibro di George Sterling e Ambrose Bierce). A detta di molti critici, Smith possedeva una prosa che lo elevava sopra al resto dei suoi contemporanei, e fu solo per necessità che si mise a scrivere narrativa per i grezzi pulp e le riviste popolari dell’epoca: fantasie velenose e sardoniche su maghi e negromanti, vampiri, diavolesse e mostri, terribili divinità e strane creature aliene, giganti, stregoni, licantropi e tutto il resto dell’immaginaria Corte dei Miracoli del racconto soprannaturale, che in Smith si arricchisce però di un substrato “cosmico” il quale traeva linfa dalla sua filosofia escapistica, allontanandolo da ogni altro suo contemporaneo e rendendolo scrittore unico nel panorama del fantastico di marchio weird.

Benchè riprendesse lo stile ornato e fiorente dei classici del genere (Poe, Machen e Blackwood), integrandolo con lo spleen dei poeti Decadenti, Smith nel suo isolamento sviluppò un punto di vista altamente originale, dove le vicende dell’esperienza umana appaiono al più secondarie, e simile per certi versi a quello del suo contemporaneo e amico Lovecraft. Questo, in un iter narrativo che evolse e si potenziò durante il corso delle circa cento storie che scrisse in un periodo fertile che va dal 1925 al 1936, anno in cui smise quasi completamente di produrre narrativa per dedicarsi a forme d’arte manuali come la pittura e la scultura.

Le prime storie di Smith sono favole orientali influenzate dalle narrazioni delle Mille e una Notte e dal Vathek di William Beckford (a cui aggiunse anche un epilogo con “The Third Episode of Vathek”), e il soprannaturale vi gioca un ruolo ancora tutto sommato secondario. Tra le nove che appartengono a questa categoria, soltanto “The Ghost of Mohammed Din” e “The Ghoul” possono considerarsi realmente fantastiche.

Weird Tales, gennaio 1932, copertinaLe sue prime, vere storie dell’orrore iniziò a pubblicarle nel 1928, quando il suo racconto “The Ninth Skeleton” comparve su Weird Tales. Anch’esse, però, sono ancora abbastanza convenzionali. Vi troviamo palesemente l’influsso di Edgar Allan Poe e degli scrittori del gotico inglese, con i quali Smith condivise un gusto marcato per il macabro e il necrofilo, ma già vediamo svilupparsi in germe una sorta di mitologia alternativa che prende spunto dall’invenzione lovecraftiana. In racconti come “The Hunters from Beyond”, “The Treader in the Dust” o “The Immeasurable Horror”, Smith utilizza metodi narrativi che si avvicinano molto a quelli del creatore dei “Miti di Cthulhu”, e intenzionalmente ne riprende lo stile arcaico. Il racconto “The Hunters from Beyond”, per esempio, narra di uno scultore che usa per modelli i mostri che ha evocato con le pratiche della magia nera, e sembra essere stato ispirato direttamente dal “Pickman’s Model” di Lovecraft.

E come Lovecraft, anche Smith crea un suo pantheon di dèi e di mostri (Tsathoggua, Abhoth, Thamogorgos, Ubbo-Sathla, Atlach-Nacha e altri) e altresì un suo grimorio infernale (uno pseudobiblium, come si definisce il libro che non esiste), il Libro di Eibon che all’interno della narrativa smithiana ha la stessa funzionalità magica del Necronomicon.

Più tardi, comunque, Clark Ashton Smith si svincola dall’influenza del suo amico di Providence e sviluppa un genere proprio di cosmic horror che, se possibile, è ancora più estremo di quello di HPL. Difatti, se Lovecraft si definì anche “narratore realista”, il cui scopo principale era quello di costruire un’atmosfera attraverso il metodo lento e pedestre del particolare narrativo e della verosimiglianza scientifica, Smith fu molto più radicale nel rivendicare, all’interno della narrativa d’immaginazione, la piena estraneità di ciò che chiamava “umanitarismo” (che in uno dei suoi Epigrams of Alastor definì una sorta di “provincialismo cosmico”). Per lo scrittore di Auburn, la migliore se non l’unica funzione della letteratura fantastica era quella di guidare l’immaginazione umana verso l’esterno, per portarla – come scrisse in una lettera del 1932 inviata alla rivista Wonder Stories“nella vasta eternità dei cosmi e lontano da tutte le introversioni ed introspezioni”.

Una caratteristica, questa, che avvicina molto i racconti di Smith alla science fantasy, dove è tipico il rifuggire dalle umane convenzioni. Esemplificativi sono i racconti “A Night in Malneant”, forse il più poetico ed enfaticamente sognante di tutti quelli da lui scritti, e “The Light from Beyond” in cui il protagonista, Dorian Wiermoth, compie l’esperienza unica di un viaggio cosmico attraverso mondi esotici di rara bellezza. E poi “The Dark Age”, una delle metafore più belle che siano mai state scritte sul potere della tecnologia, così come opposta alla libertà delle emozioni e delle fantasie umane. Senza dimenticare la bellezza “gotica” di novelle macabre come “The Nameless Offspring”, “The Devotee of Evil”, “The Double Shadow” o “The Tomb-Spawn”, racconti capaci di irretire anche i più smaliziati verso il genere.

Le storie in cui Clark Ashton Smith scioglie totalmente le briglie della sua immaginazione, liberandosi definitivamente dalle influenze degli scrittori a lui più cari, sono però quelle che compongono alcuni cicli ambientati in terre immaginarie. Tra esse le più “strane” sono quelle del cosiddetto “Ciclo di Averoigne” che, composto di undici racconti, è forse il suo magnus opus. Qui i personaggi, gli ambienti e le situazioni sono ispirati dalla favolosa Francia medievale delle leggende epiche arturiane, ma insieme ad alcune invenzioni che riscrivono la storia vi si possono trovare elementi presi dalla mitologia greca, dalla demonologia medievale, dalla fiaba, dal romanzo gotico e dai lovecraftiani “Miti di Cthulhu”. Per cupa inquietudine e sottile erotismo, molti di quei racconti possono essere definiti vere e proprie “favole nere per adulti”.

Tra essi spiccano “The End of the Story”, dove un giovane studente di legge, Christophe Morand, viene irretito nei pressi di un castello diroccato da una bellissima ma pericolosa lamia e condotto a perdizione in un oscuro regno sotterraneo, “The Colossus of Ylourgne” dove agisce un gigantesco mago composto dai corpi di più cadaveri (quasi una rilettura “magica” del Frankenstein di Mary Shelley), e poi “The Disinterment of Venus”, con una comunità di monaci messa in subbuglio dalle procaci nudità di una diabolica statua, e “The Beast of Averoigne”, nel quale Smith prende spunto da un’antica leggenda provenzale, quella della mitica “Bestia del Gevaudan”, per imbastire l’allucinante storia di un mostro spaziale e mutaforma che giunge sulla terra seguendo la scia di una cometa.

Klarkash-Ton, illustrazione di Richard SvenssonIn altre serie di racconti – I cicli di “Zothique”, “Atlantide” e “Hyperborea” – Smith ricorre agli stessi metodi narrativi usati per quelli di Averoigne, con la differenza che qui non fa nessun riferimento a luoghi terrestri conosciuti, abbandonando ogni possibile allusione all’universo noto. Le civiltà strane e decadenti che evoca, malgrado una loro somiglianza con alcuni luoghi del favoloso passato della Terra, sembrano situarsi al di fuori dello spazio e del tempo; i continenti ivi descritti non corrispondono in nessun modo alla topografia del nostro pianeta, e gli eventi che vi accadono sono fuori da ogni prospettiva storica. Qui il “cosmicismo” di Smith tocca il suo apice, e fra le creature più fantastiche e mostruose, tra i fatti prodigiosi che accadono, siamo trasportati ben lontano dal mondo reale.

A Smith non interessa raccontare una storia da un punto di vista “umano”. Ciò che lo stimola è piuttosto l’assenza dei limiti, le seduzioni di un universo misterioso e insondabile, il fascino incommensurabile dell’infinito. “La prerogativa più gloriosa della letteratura” – scrisse in una lettera inviata ad Amazing Stories“è data dall’esercizio dell’immaginazione su cose che risiedono oltre l’esperienza umana, avventurando la fantasia nei sublimi, spaventosi e infiniti cosmi al di fuori dell’acquario umano”.

Per Smith, la vera eccitazione nell’avventura dello scrivere stava nel descrivere eventi ultraumani, forze e scenari capaci di rendere insignificanti i protagonisti terrestri. In questo senso, il cosmic horror rappresentò per lui una sorta di letteratura mistica, attraverso la quale poter accedere ad una realtà “altra” capace di trascendere le umane limitazioni. Come fa dire al personaggio di un suo racconto: “Forse quella che noi chiamiamo Realtà è solo un’allucinazione collettiva”, forse solo una parte di “quella realtà più vasta che i nostri sensi o la nostra scienza è incapace di rivelare”.

Il desiderio principale di Smith, come si evince anche dai saggi che scrisse, era quindi di trascendere i limiti umani per mettersi in armonia con l’universo e il Tutto (e forse fu proprio per tale motivo che negli ultimi anni della sua vita si interessò al Buddhismo). Per questo si discostava da quella che era la mitologia “positivista” del suo tempo, atta a eliminare ogni traccia d’ignoto nell’uomo, a respingere ogni sospetto di mistero, e avvicinò invece la filosofia di alcuni mistici e le idee di personaggi considerati oggi, come allora, eccentrici, tra cui Madame Helena P. Blavatsky (la cui influenza si palesa soprattutto nelle storie “teosofiche” del “Ciclo di Hyperborea”) e Charles Fort, che fu uno dei suoi principali ispiratori. Per cui la sua prosa risulta molto più ricca, emblematica e spirituale di quella di ogni altro scrittore della sua epoca.

Da vero visionario ed esteta, Smith si impegnò in una riflessione su scala cosmica, una riflessione che trasposta in forma narrativa esprimeva tutto il suo stupor mundi. Si mise quindi a comporre storie meravigliose e bizzarre, dove la separazione dall’ottica terrestre, il senso dello smarrimento e di solitudine di fronte ai misteri del “gelo comico” tocca vertici di ineguagliato lirismo. Per riuscire a comprendere appieno la weltanschauung smithiana si dovrebbero leggere, insieme ai racconti, anche i saggi e le lettere che scrisse; documenti che sono di fondamentale importanza per capire le pulsioni che hanno animato lo scrittore portandolo a plasmare quei racconti.

Per Smith, come abbiamo detto, era vitale il senso del mistero, l’assenza dei limiti, e quello che ricercava era soprattutto il fascino del meraviglioso e dell’ignoto. Come ebbe a scrivere una volta a Lovecraft, “scienza, filosofia, psicologia e umanesimo sono dopotutto solo bagliori di candela di fronte alla notte eterna, con le sue infinite riserve di stranezza, terrore e meraviglia”. E in un’altra occasione – una missiva a Harry Bates del giugno 1931 – ribadisce il concetto affermando che “(…) in un eterno e vasto cosmo non c’è nulla di immaginabile, o di inimmaginabile, che non possa accadere e non possa essere reale in qualche tempo o in qualche luogo (…) La scienza ha scoperto e continuerà a scoprire una massa enorme di dati relativi, ma rimarrà sempre un residuo illimitato di mistero insondabile”.

In un tale senso, il campo della narrativa d’immaginazione diventa per Smith un campo pienamente inesauribile, un immenso serbatoio da cui attingere per scrivere storie in cui il sense of wonder si accompagni e trame assolutamente nuove ed originali.

Lost Worlds, 1944, copertinaRispecchiando questo punto di vista “cosmico”, ancora più pregnanti delle fantasie orrorifiche sono le storie di fantascienza dell’autore, ambientate in mondi le cui descrizioni fanno pensare alle stupefacenti tavole dei surrealisti, dove ogni prospettiva è abolita. Lo scenario, chiaramente, non è “relistico” né, men che meno, “scientifico”. Protagonista è l’universo intero, un universo immenso costellato di mondi rutilanti e abitato dalle creature più strane e incredibili, pieno di portenti e di infinito splendore ma anche di terrori al di là di ogni immaginazione. La fantascienza di Clark Ashton Smith è, ancora oggi, qualcosa di assolutamente unico e innovativo, poiché possiede un afflato “cosmico”, un’immensità straordinaria di idee e di concetti che al lettore meno superficiale non possono sfuggire. Egli si divertiva infatti a coronare i suoi racconti con immagini, metafore e simboli (anche “alchemici”) non immediatamente comprensibili per chi non è addentro nel misterioso linguaggio della letteratura nera e fantastica. Per cui, le sue storie di fantascienza sembrano quasi un’estensione di quelle horror, e ben lontane dalla science fiction più ortodossa e progressista.

Sulla base di questo “fideismo cosmico”, Smith scrive storie originali e altamente evocative. Il claustrofobico “Murder in the Fourth Dimension” si ambienta in una piega dello spazio non-euclideo; in “The Eternal World” le normali leggi del tempo e dello spazio sono annullate, mentre in “The Dimension of Chance” i protagonisti sono immersi in un universo multicolore retto da bizzarre leggi fisiche, dove il Caos regna incontrastato. Tra i suoi capolavori spiccano poi “The City in the Singing Flame”, dove una brulla California si trasfigura fantasticamente in una imaginary land da cui è possibile accedere nell’arcano mondo parallelo della Fiamma, e “The Desolation of Soom”, in cui lo scenario smithiano riesce effettivamente ad evocare la sensazione che misteriose Verità dormano “oltre l’orizzonte fiammeggiante”.

È difficile poter rinserrare sotto un’unica definizione l’arte letteraria di Clark Ashton Smith. Il suo lavoro fantastico è probabilmente unico nel suo genere, e il suo stile elegante e volutamente arcaico rende i suoi racconti quasi dei poemi in prosa, dei piccoli gioielli del macabro dove le immani meraviglie del cosmo vanno di pari passo con il mistero e con i terrori più indicibili.

Come scrisse Howard Phillips Lovecraft, “Smith s’è sottratto ai feticci della vita e del mondo, ha intravisto la perversa, titanica bellezza della morte e dell’universo, servendosi dell’infinito per creare i propri sfondi e registrando con reverente timore i capricci di soli e pianeti, di dèi e di demoni, e dei ciechi orrori amorfi che infestano giardini di fungosità policrome più remoti di Algol e d’Achermar. È un cosmo di vivida fiamma e di glaciali abissi quello che egli celebra, e il rigoglio dai colori sgargianti con cui lo popola non deriva da nient’altro se non dal genio più vero” (Cit. “Su Ebony and Crystal di Clark Ashton Smith”, in H. P. Lovecraft, In Difesa di Dagon e altri Saggi sul Fantastico, a cura di G. de Turris, Ed. SugarCo, 1994).

Dette da uno dei più grandi maestri dell’orrore letterario, queste parole acquistano un significato particolare e profondo, che non può sfuggire ai cultori più raffinati del genere. E a quei fortunati lettori che avranno la ventura di imbattersi nei racconti di Smith. Entrati in quelle pagine, si dispiegheranno in voli assurdi le mille Chimere del Sogno, e si spalancheranno le Porte d’Argento che portano nel più vasto mondo della Fantasia e dell’Immaginazione.

Bibliografia di Riferimento:
Pietro Guarriello (a cura di), Ombre dal Cosmo: Fantasie di Clark Ashton Smith, Ed. Yorick, Reggio Emilia, 1999
Charles K. Wolfe (a cura di), Planets and Dimensions: The Collected Essays of Clark Ashton Smith, The Mirage Press, Baltimora, 1973
David E. Schultz e Scott Connors (a cura di), Selected Letters of Clark Ashton Smith, Arkham House, Sauk City, 2003
Don Herron e Donald Sidney-Fryer (a cura di), The Devil’s Notebook: Collected Epigrams and Pensees of Clark Ashton Smith, Starmont House, Mercer island, 1990
Steve Behrends, Clark Ashton Smith, Starmont Reader’s Guide n. 49, Mercer Island, 1990
Donald Sidney-Fryer, Clark Ashton Smith: The Sorcerer Departs, Tsathoggua Press, West Hills, 1997
Scott Connors (a cura di), The Freedom of Fantastic Things: Selected Criticism on Clark Ashton Smith, Hippocampus Press, New York, 2006
Brian Stableford, “Clark Ashton Smith”, in Encyclopedia of Fantasy, St. Martin’s Press, New York, 1997


Ombre dal cosmo, 1999, copertinaPOST SCRIPTUM: Questa presentata è la versione rivista e corretta di un mio vecchio pezzo scritto una quindicina di anni fa, poi pubblicato su uno dei Taccuini che uscivano come supplementi di Yorick Fantasy Magazine. Quelli di Yorick erano fascicoletti spillati, stampati in pochissime copie per cui, praticamente, è come se fosse inedito! C’è solo da aggiungere che Clark Ashton Smith è – purtroppo – un autore ancora poco conosciuto in Italia, nonostante il fatto che praticamente quasi tutta la sua produzione narrativa sia stata tradotta anche nel nostro paese. Generalmente, si sente parlare di lui solo quando il suo nome viene associato a quello di Lovecraft e Robert E. Howard, i due scrittori con i quali Smith condivide la fama di Maestro della narrativa weird. Ma, all’atto pratico, su di lui non esistono da noi studi originali né tradotti, e la critica, o anche soltanto il trovare semplici informazioni su questo grande fantasista, è – ahinoi – una rara avis, almeno per chi non legge in inglese.

Un pioniere in questo campo è stato il prof. Giorgio Giorgi (recuperate, se non l’avete, il suo libro Percorsi nel Fantastico, Ed. Il Cerchio, 1997). C’è poi quel mio vecchio volumetto, Ombre dal Cosmo; ma a parte questo e poco altro, Smith è ancora un autore piuttosto elusivo per l’appassionato italiano che intenda approfondirne la conoscenza. Attualmente, in Italia non esiste nessuna edizione di Clark Ashton Smith in commercio, per cui se qualcuno vuol recuperare qualcosa, deve solo affidarsi al classico colpo di fortuna su e-Bay. E cercare le sette edizioni di Fanucci, o le quattro della MEB. E il “Ciclo di Zothique” della Editrice Nord, più facile da reperire perché ristampato anche in tascabile.

In USA, tutta un’altra storia. E proprio di recente CAS è stato il soggetto di diverse e preziose uscite, saggi, studi critici, raccolte di poesie e di lettere, e molto altro. Tutta la sua narrativa originale, in edizione finalmente corretta, integrale e annotata, è possibile trovarla nei cinque volumi (ma il quinto deve ancora uscire) di Collected Fantasies della Nightshade Press; senza dimenticare una risorsa fondamentale come il sito The Eldritch Darkwww.eldritchdark.com – gestito con competenza e passione da Boyd Pearson (qui, però, la narrativa di Smith è ripresa da vecchie e imperfette edizioni). Attualmente, sotto la supervisione di Scott Connors, che cura la rivista Lost Worlds: The Journal of Clark Ashton Smith Studies, è in preparazione una Bibliografia mondiale dello scrittore, a cui il sottoscritto sta collaborando per parte italiana.

Pietro Guarriello